venerdì 20 agosto 2010

Il sangue è randagio

















IL SEGUENTE POST CONTIENE SPOILER: poi non dite che non ve lo avevo detto.

Il romanzo è uscito a febbraio, ma io ho resistito fino ad ora. Non solo perché volevo leggerlo tutto in un fiato, senza interruzioni, ma anche perché subito prima volevo rileggermi sia "American tabloid" che "Sei pezzi da mille" a cui questo libro è strettamente legato.
Un totale di circa 2000 pagine. Da divorare senza sosta.
E ieri ho portato a compimento l'impresa.
Non starò qui a parlare di "American tabloid". E', come ho detto più volte, il libro della mia vita: non il più bello che ho letto, ma quello per me più importante. Non parlerò nemmeno di "Sei pezzi da mille": mi concentrerò solo sull'ultima parte di quella che lo stesso James Ellroy ha definito "la trilogia del sottosuolo".
L'inizio, dopo la strepitosa rapina che apre il libro, è sinceramente un po' faticoso. Si ha la sensazione di trovarsi davanti a un Ellroy un po' di maniera, che gioca a rifare se stesso: il solito stile sincopato, trascrizioni di telefonate, dossier di tutti su tutti, tre protagonisti tre che si rincorrono, doppi e tripli giochi, violenza e sensi di colpa da soffocare con ogni tipo di droga, J.Edgar Hoover, la mafia, Howard Hughes, ecc, ecc, ecc. Poi, però, la narrazione inizia a carburare e vengono fuori i personaggi veri: due in particolare, Joan Rosen Kein, la "dea rossa" e Don Crutchfield, una specie di alter ego di Ellroy, nonché il narratore occulto dell'intera vicenda.
Don, come lo stesso Ellroy nella vita reale, avrà alla fine la sua redenzione. E che redenzione, visto che sarà proprio lui, in un finale ucronico, simile per certi versi a quello di "Inglorious basterds" di Tarantino, a uccidere J.H.Hoover, il supercattivo dell'intera trilogia.
Non mi vergogno di ammettere che quando Don compare nottetempo nella cucina del vecchio capo dell'FBI ormai settantasettenne, con uno smeraldo in mano (?) , mi sono commosso, come ormai mi accade di rado.
Intendiamoci, "Il sangue è randagio" non è "American tabloid" - come potrebbe? - ma è comunque meglio del 99% dei libri che escono in libreria ogni anno e conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che James Ellroy è insieme a Don De Lillo, Cormac McCarthy e Philip Roth, il più grande scrittore americano vivente.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Io invece ho finito oggi "Quello era l'anno" di Dennis Lehane… e non ho ancora chiaro se e quanto mi sia sia piaciuto…
Marcello